Il Museo delle mummie di Roccapelago
Le Mummie di Roccapelago (XVI-XVIII sec.): vita e morte di una piccola comunità dell’Appennino modenese
Tra il Dicembre 2010 e il Marzo 2011, durante lavori di ristrutturazione e restauro nella Chiesa della Conversione di San Paolo a Roccapelago di Pievepelago, sull’Appennino modenese, gli archeologi hanno fatto una scoperta eccezionale: una fossa comune con 281 inumati tra adulti, anziani, infanti e settimini, di cui circa 60 perfettamente mummificati. Donne, uomini e bambini, presumibilmente l’intera collettività vissuta a Roccapelago tra il XVI e il XVIII secolo, ma anche molta fauna cadaverica (larve e topi), deceduta d’inedia o per i miasmi della decomposizione. Può essere considerato a tutti gli effetti un vero e proprio cimitero, prima della realizzazione dell’attuale camposanto nel XVIII secolo.
Non si è trattato, come accade di solito, della mummificazione volontaria di un preciso gruppo sociale (monaci, beati o membri di famiglie illustri che siano) ma della conservazione naturale di un’intera comunità, consentita dal microclima particolare dell’ambiente, caratterizzato da scarsa umidità e intensa aerazione creata dalle due finestre che si aprono nella parete est della cripta.
Non solo un ritrovamento unico per l’Italia settentrionale ma un‘autentica miniera di informazioni, in virtù della rara opportunità di studiare sia i resti umani che gli indumenti e i tanti oggetti d’uso quotidiano, ricostruendo quasi tre secoli di vita contadina, credenze, tradizioni, usanze e abitudini di quell’antica comunità montana.
La cripta sepolcrale e le sue mummie
L’enorme piramide di resti accatastati è stata accuratamente smontata, recuperando i corpi (alcuni inaspettatamente mummificati) ad uno ad uno. Per non comprometterne l’integrità, i corpi sono stati adagiati su barelle appositamente realizzate, e poi trasferiti dalla cripta al piano superiore, cioè all’interno della chiesa.
L’uso prolungato della cripta (oltre due secoli) come luogo di sepoltura, è apparso ben attestato dalla sua organizzazione interna che prevedeva, in prossimità della porta di accesso attuale, uno spazio dedicato alla sepoltura dei bambini. Qui sono stati recuperati i resti di un feto ancora nel grembo della madre.
La disposizione dei resti e la struttura dell’ambiente lasciano intendere che, in un primo tempo, il trasporto delle salme dentro la cripta avvenisse tramite una scala che scendeva dalla navata della chiesa e che successivamente i corpi fossero calati attraverso una botola che si apriva nel pavimento della stessa.
Il particolare ambiente ha prodotto in molti inumati la conservazione, oltre che dei vestiti, di alcuni tessuti (pelle, capelli) e strutture legamentose e tendinee.
Una volta deposti, i corpi si sono velocemente disidratati rimanendo a volte fissati come erano stati deposti, a volte nella posizione assunta dal cadavere in seguito a movimenti successivi alla tumulazione. Numerosi sono gli esempi di mani ancora intrecciate in atto di preghiera o adagiate sull’addome. Frequenti anche i casi di polsi e caviglie legate per evitare la scomposizione del cadavere, come pure di fasciature intorno del mento per evitare lo spalancamento della bocca.
Dal castello alla chiesa: lo scavo e le testimonianze di cultura materiale
I lavori di restauro della Parrocchia di Roccapelago ha fornito l’occasione per effettuare una serie di scavi archeologici che hanno riportato in luce i resti della rocca medievale, della chiesa preesistente e numerose tombe con centinaia di sepolture che hanno caratterizzato la vita del complesso religioso tra il ‘500 ed il ‘700.
Della Rocca dei Montegarullo (XIV – XV secolo) sono stati riportati in luce due ambienti interrati muniti di caditoie. Sui resti del fortilizio si sovrappose nel XVI secolo una chiesa, più piccola dell’attuale e orientata diversamente, che sfruttò uno degli ambienti della rocca per ricavarvi una cripta cimiteriale, mente al centro della stessa è ubicata una sepoltura in cassa lignea (Tomba 4) appartenuta verosimilmente al primo parroco.
Con l’ampliamento della chiesa tra il XVII ed XVIII secolo, si continuò ad utilizzare la cripta e il pavimento della chiesa per le sepolture. La scala usata in passato per accedere alla cripta fu utilizzata come ossario (Tomba 7), in prossimità del nuovo altare fu collocata la tomba dei nuovi parroci (Tomba ) mentre un’altra sepoltura (Tomba 3) con almeno dieci individui (adulti e bambini) è forse da riferire ad un gruppo sociale o famigliare della zona. La cripta, con un nuovo accesso, fu invece destinata alla sepoltura dei personaggi meno abbienti della comunità di Roccapelago.
Le indagini archeologiche hanno restituito brani di vita della fase castellana del sito: due frammenti di proiettili ritrovati all’interno della cripta ben rappresentano il clima e le tensioni guerresche che si vivevano a Roccapelago durante la dominazione di Obizzo di Montegarullo. Il calibro del proiettile e il materiale usato depongono per un utilizzo con artiglieria da breccia o da mortaio, databile tra la seconda metà del XV secolo e la prima metà del XVI secolo. La ceramica recuperata, che in archeologia è sempre un prezioso indicatore cronologico, è ciò che rimane della vita quotidiana del castello di Roccapelago. I frammenti ritrovati, tutti inquadrabili tra seconda metà del XV e la prima metà del XVI secolo, sono riferibili alle attività quotidiane del desinare. Le forme ritrovate sono tutte riconducibili a piatti, catini e brocche. All’attività domestica è da riferire anche il ritrovamento di un ben conservato coltello in ferro.
Dalle macerie servite per il riempimento della cripta sono stati recuperati anche una botola circolare che serviva per deporre i corpi nella cripta e alcuni frammenti di intonaco dipinto, forse appartenente alla prima fase della chiesa o al precedente insediamento castellano, come lascerebbero intuire i colori (rosso, nero, bruno, giallo) utilizzati per le decorazioni.
Gli indumenti delle mummie
Annalisa Biselli, Ivana Micheletti, Thessy Schoenholzer Nichols
L’abbigliamento delle mummie di Roccapelago (XVI – XVIII seolo) è composto principalmente da una camicia e un sudario, quasi sempre in lino, mentre rara è la presenza di tessuti di pregio, come seta e velluto, riscontrato solo su copricapi (cuffie).
Si tratta di indumenti di persone in genere povere, di ambito contadino, ed è proprio questa particolarità che rende il loro ritrovamento e studio così importante. Gli abiti antichi (prima del XVIII secolo) giunti fino a noi provengono di solito da tombe di personaggi importanti e di alto rango, se non di veri e propri regnanti: le loro vesti sono di solito in seta tinta in colori pregiati, decorate con trine, passamanerie e ricami preziosi. La loro foggia è quella tipica della moda in voga nel periodo in cui morirono e nel luogo dove per lo più vissero. Gli abiti funebri più importanti sono quelli di Cosimo I de’ Medici, granduca di Toscana, di sua moglie Eleonora di Toledo e di uno dei figli, Don Garçia, conservati alla Galleria del Costume di Palazzo Pitti; del duca Francesco Maria della Rovere, del Cardinale della Rovere e della cognata Giulia Varano della Rovere di Camerino, conservati ad Urbino, e i resti della veste di Pandolfo III di Malatesta di Fano, conservati a Fano
Tra i tessuti provenienti da sepolture, sopravvivono di solito quelli realizzati con fibre animali (lana e seta) mentre è raro che rimangano quelli in fibre vegetali (che spesso costituivano le fodere), ad eccezione dei tessuti recuperati nelle arche della chiesa di S. Domenico Maggiore a Napoli.
Diversa, e del tutto particolare, è la situazione di Roccapelago: qui gli indumenti sono prevalentemente di fibre vegetali (lana per le calze) mentre sono quasi totalmente inesistenti (o scomparsi) quelli in seta. Sia le donne che gli uomini sono stati sepolti privi di abiti, vestiti solo con camicia e calze, e infine chiusi dentro una seconda camicia o un lenzuolo-sudario. Non è quindi documentabile di quale fibra e come fossero i loro indumenti quotidiani, contrariamente a quanto accaduto nel ritrovamento analogo di Monsampolo del Tronto, dove le mummie erano ancora vestite con camice, abiti, giacche, corpini, gilet e calze in fibre vegetali
Il particolare microclima della cripta di Roccapelago ha attivato un diverso processo di conservazione, preservando proprio gli indumenti in canapa, lino o altro tipo di fibra vegetale che di solito si deteriorano per primi. Grazie a questo evento straordinario, abbiamo ora l’eccezionale possibilità di conoscere e studiare direttamente le vesti intimi dei contadini dei secoli passati (finora note quasi esclusivamente attraverso l’iconografia coeva) e documentare il modo in cui hanno sepolto i loro morti, lavoro che verrà confrontato con altri campi di studi. Abbiamo la possibilità di analizzare i tipi di fibre, di tessuti, di fogge, di cuciture e di decorazioni utilizzati dalla povera gente. Questo studio ci permetterà di fare luce su fenomeni scarsamente studiati, perché di minore interesse rispetto a quelli della moda del momento (che nell’abbigliamento contadino è solo lontanamente riflessa). Ma soprattutto di indagare direttamente le abitudini di vita dei ceti poveri, creando una banca dati utile per studi futuri in Italia e all’estero.
Come già accennato si tratta per lo più di camice e calze, le prime per la maggior parte di lino, le seconde esclusivamente di lana. È probabile che in entrambi i casi, sia il lino che la lana, si tratti di prodotti locali, così come locale sarà stata anche la filatura e probabilmente la tessitura.
In molti casi è stato possibile determinare l’altezza del tessuto da cimosa a cimosa (da cm 60 fine a cm 75), anche quando l’indumento era molto frammentario. Questo ci ha fornito l’altezza del telaio di tessitura, suggerendo anche se si trattasse di lavorazione domestica oppure di tessuti acquistati. Determinando la riduzione dei fili della trama e dell’ordito, sarà interessante confrontare le varie qualità dei tessuti, per lo più tela semplice.
Un confronto interessante è quello tra le camice, indumento personale intimo della persona in vita, e le camice–sudario che avvolgevano le camicie. Le camicie-sudario finora analizzate sono in genere della stessa qualità di lino grezzo delle camice anche se la tela appare più traforata. La loro confezione è semplice e realizzata al momento della sepoltura. Si tratta di un telo lungo continuo (sia per il davanti che per il dietro) con maniche larghe la metà dell’altezza del telo e un’apertura per il collo. Lo scollo e i polsi sono arricciati con un filo unico e i polsi sono cuciti per circa cm 20. Le altre parti sono state lasciate aperte per avvolgere il defunto e poterlo cucire all’interno.
Il taglio e la confezione dei capi sono di grande interesse, come anche le cuciture, i decori e particolari aggiunti, come merletti, ricami e bottoni. Sono tutti dettagli semplici, probabilmente di lavorazione locale, ma testimoniano il fatto che si lavorasse il merletto a fusello a fili continui, e che le contadine fossero in grado di aggiungere dettagli vezzosi ai loro capi.
Le camice facevano parte dell’abbigliamento personale quotidiano ed è probabile che questo capo fosse usato per molti anni, forse per tutta la vita adulta. Questa ipotesi è suffragata dal fatto che sono presenti numerosissime riparazioni, con cuciture e toppe, anche sovrapposte, che ricoprono ogni parte della camicia, dallo scollo al orlo. Gli interni delle camice mostrano ancora le usure, gli strappi e le abrasioni che dovevano essere coperti: evidentemente, anche se poveri, i membri della comunità ci tenevano a presentarsi in pubblico modo dignitoso, sia da vivi che da morti.
Le testimonianze devozionali
Donato Labate, Barbara Vernia
Pur trattandosi di una piccola comunità di montagna che viveva delle limitate risorse del territorio, nel loro ultimo viaggio gli abitanti di Roccapelago erano forniti di un essenziale ma completo corredo devozionale, come dimostrano le decine di medaglie votive recuperate, i crocifissi in legno e metallo, i numerosissimi grani di rosario di forma, dimensioni e materiale vario oltre a una rara lettera di rivelazione che accompagnava la salma di Maria Ori, sepolta nella cripta insieme a centinaia di altri defunti.
Medagliette devozionali
Le medaglie erano apposte fra le pieghe degli abiti o in appositi sacchetti. Tranne poche eccezioni, le medaglie presentano iconografie ricorrenti. Tra le più diffuse, la Madonna di Loreto, la Madonna dei sette dolori, S. Emidio vescovo di Ascoli, S. Domenico, il domenicano S. Vincenzo Ferrer, la porta santa, S. Francesco e il francescano S. Antonio di Padova col bambino e il monogramma di S. Bernardino da Siena. I flussi devozionali sembrano dunque portare verso il centro Italia, in particolare Marche, Umbria e Toscana, ma anche nella più lontana Puglia come rivela una medaglia con Sant’Oronzo, patrono di Lecce. Particolarmente interessante è il culto di Sant’Emidio, invocato contro i terremoti che in passato hanno frequentemente colpito l’alta valle del Frignano, e il culto della Vergine dei sette dolori, rappresentata con sette spade conficcate nel cuore, la cui la festa venne istituzionalizzata da papa Innocenzo XI solo nel 1688.
La devozione più documenta è quella della Madonna di Loreto, raffigurata non solo su un cospicuo numero di medaglie ma riprodotta a stampa anche su un pezzo di stoffa.
Significativa è la presenza di crocifissi, anche di pregevole fattura, alcuni dei quali recano al rovescio la raffigurazione della Madonna del Soccorso con la preghiera VITAM PRAEST PURAM “assicuraci una vita pura”.
Al culto della Madonna del Rosario, la cui festa fu istituita da Pio V nel 1571, sono infine da riferire numerosi rosari, alcuni dei quali ancora conservati tra le mani di alcune mummie.
Singolare è infine la lettera di Maria Ori, un raro documento di spiritualità popolare. Si tratterebbe della trascrizione di un documento trovato, secondo la credenza, nel Santo Sepolcro di Gerusalemme che fa riferimento alla “rivelazione” sulla passione di Cristo ricevuta dalle Sante Elisabetta, Brigida e Matilde direttamente dal Redentore. La seconda parte della lettera prescrive le preghiere da recitare per ottenere le indulgenze e la protezione divina per salvare la propria anima e sfuggire al demonio e alle pene del purgatorio.
Oggetti per il decoro personale e altri reperti
Mirko Travesari, Barbara Vernia
Prima di essere inumate le salme venivano amorevolmente preparate dai propri cari.
I capelli delle donne erano acconciati a treccia o con uno chignon, fermati da sobri spilloni in osso e piccoli pettini. Spesso i capelli venivano raccolti dentro cuffie di canapa e a volte di velluto o seta, come voleva la moda del tempo.
I defunti portavano gioielli semplici in linea con il tenore di vita della comunità: nel loro ultimo viaggio, così come capitava in vita nei giorni di festa, indossavano anelli e orecchini in bronzo e argento, collane e bracciali di sobria fattura realizzati con perline di materiali veri quali legno, terracotta o vetro, collegati da catenelle in fibra o in metallo.
In qualche caso il defunto presentava la vera nuziale ancora infilata al dito. I gioielli, in nessun caso di metallo prezioso, rappresentano lo specchio della società di Roccapelago, povera ma estremamente dignitosa come rivela anche l’uso dei bottoni in legno, stoffa e, raramente, in metallo. Scarse sono invece le cinture in cuoio con elementi in osso, testimoniate da un solo esemplare.
Toccante il recupero di un dado da gioco, che ci racconta forse di serate passate a svagarsi in piacevole compagnia mentre i resti di quella che sembra essere una roncola, recuperata con la sua custodia in cuoio, ci fanno immaginare attività contadine e silvane.
Le rare monete dentro alle tombe sono forse il simbolo dell’antica credenza popolare che rendeva necessario fornire il defunto di un obolo (obolo di Caronte) per pagarsi il viaggio ultraterreno.
Vita e salute degli abitanti di Roccapelago fra XVI e XVIII secolo
Mélanie Frelat, Giorgio Gruppioni, Caterina Minghetti, Vania Milani, Mirko Traversari
Quella di Roccapelago fra il XVI e il XVIII secolo doveva essere una piccola comunità, di 40, forse 50 individui, uomini e donne in percentuale pressoché identica.
La loro vita non doveva essere facile. La mortalità infantile era elevatissima, soprattutto nei primi anni di vita, e insolitamente alta la mortalità delle giovani donne, forse per gravidanza e parto. Tuttavia, quanti giungevano l’età adulta, non infrequentemente arrivavano a età piuttosto avanzate per l’epoca, come attestano i numerosi inumati di età senile.
La ricorrenza in molti inumati di caratteri epigenetici dello scheletro (cioè tratti anatomici che hanno una base ereditaria) suggeriscono che quella di Roccapelago sia stata una comunità relativamente isolata, con tendenza endogamica (cioè a contrarre matrimoni interni alla comunità).
I segni di malattie riscontrati mostrano che l’ambiente e le attività lavorative incidevano pesantemente sulle condizioni fisiche degli individui. Le numerosissime lesioni articolari, le gravi patologie dell’anca, i casi frequenti di artrosi della colonna vertebrale e di scoliosi, uniti alle affezioni di tipo reumatico, raccontano di trasporti di carichi pesanti su terreni ripidi e impervi e dei rigori invernali dell’alto Appennino. Molto diffusa anche l’osteoporosi, soprattutto nelle donne, forse riconducibile alle numerose gravidanze e ai lunghi periodi di allattamento.
La marcata usura dentale e la perdita dei denti anche in giovani adulti denota un quadro alimentare povero, costituito da cibi poco raffinati (segale, crusca, castagne, noci), che non sembra variare molto nel tempo.
I traumi evidenziati sono muti testimoni di scontri, spesso violenti se non addirittura mortali.
Riconosciuti, fino a questo momento dello studio, un caso di tumore benigno del cranio e segni di una infezione del femore.
Un caso di trapanazione cranica dimostra che probabilmente venivano praticati interventi chirurgici a scopo terapeutico, in questo caso senza successo, dato che il malato non è sopravvissuto all’operazione.[:]